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Domenica 21 maggio 2017

NON CHI DICE “SIGNORE, SIGNORE…”

“Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli.” (Mt 7,21). Partiamo da questa citazione, che non fa parte del Vangelo di questa Domenica ma che bene esprime lo spirito di alcune affermazioni che Gesù fa all’interno dei “discorsi dell’ultima cena” da cui è tratta la pericope giovannea che ci propone oggi la liturgia. Mentre nel passaggio matteano Gesù collega allo scopo della salvezza l’esigenza di mettere in pratica i suoi insegnamenti – in sostanza si salva chi vive veramente il Vangelo e non tanto chi “dice” di credere – nel brano giovanneo Gesù ci parla dell’amore vero che lega il credente a Lui. Il discorso passa così da un semplice – ma comunque necessario – “fare” al più profondo ed esigente “amare”. Mi spiego. Se nel brano di Matteo, Gesù ci dice sostanzialmente che si salva non chi “dice” di credere, non chi crede a parole, formalmente, ma poi non traduce in pratica, bensì chi vive realmente secondo gli insegnamenti di Cristo, in Giovanni Gesù ci parla dell’esigenza di un amore vero, autentico, che lega il credente a Lui, e l’autenticità di questo legame affettivo si gioca appunto non sulle parole ma sul vivere veramente – leggi: mettere in pratica – i “comandamenti” di Gesù: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama” e raggiungere così la salvezza appunto nella comunione vera, vitale e profonda con Cristo. I due messaggi – complementari tra loro – sono semplicemente fondamentali per la “verità” della nostra vita cristiana e devono essere tenuti bene in considerazione, perché ambedue rappresentano dei punti costitutivi e basilari del nostro essere cristiani, talmente importanti che, se trascurati, finiamo per andare fuori strada. Vediamo allora di riassumere e sintetizzare questi due punti, dei quali il primo costituisce il necessario gradino per salire al secondo e più profondo livello. Innanzitutto il mettere in pratica gli insegnamenti di Gesù; il processo di per sé è molto semplice: Gesù dice e io faccio quello che Lui mi dice di fare. Semplice ma “semplicemente” fondamentale. Tuttavia questo primo livello, se non integrato col secondo, rischia di limitarsi ad un freddo pragmatismo, a un “fare” che potrebbe essere senz’anima; un meccanicistico “mettere in pratica”. Gesù vuole di più; Egli vuole che il suo discepolo lo ami, così come Lui ama il suo discepolo e per esso è disposto a donare lapropria vita. Ma anche qui ecco che questo amore non si gioca sul sentimentalismo, sui sospiri, sulle parole; Gesù vuole la concretezza della vita vissuta, perché è nel vivere reale che si realizza, si concretizza e prende corpo l’amore vero, l’unione vitale con Cristo e dunque la salvezza che Egli ci dona. D’altronde – e questo vale per ogni relazione affettiva – tutti sappiamo bene che non si ama a parole ma – come afferma San Giovanni nella sua Prima Lettera – coi fatti e nella verità (Gv1 3,18). L’amore vero è quello che si concretizza in gesti reali, “tangibili”, di amore. Ebbene, l’amore vero per Gesù si concretizza nel tradurre in vita vissuta quello che Lui ci insegna, e questo non tanto per dargli una specie di “contentino” – Gesù non ha certo bisogno di essere gratificato dalla nostra osservanza dei suoi insegnamenti! – ma perché il mettere in pratica ciò che Gesù insegna crea nel nostro essere quella giusta sintonia con Lui che ci permette di instaurare un autentico rapporto di amore col nostro Salvatore, perché finisce – il mettere in pratica i comandamenti di Cristo – per modellare il nostro animo sul suo e farci condividere gli stessi sentimenti che sono di Cristo. Non chi “dice” – dunque – ma chi fa, ma chi “vive” dal più profondo del cuore e traduce in esistenza vissuta in Cristo e per Cristo; questi vedrà la salvezza.

Padre Stefano

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